CREDI DI POTERCELA FARE?
“Non misurare te stesso dalla testa al pavimento ma dalla testa al cielo”.
Ieri sera ho visto questo film veramente meraviglioso, Little Boy, del 2015 – regia di Alejandro Monteverde (qui la scheda del film).
- Tema del bullismo.
- Dei pregiudizi.
- Del razzismo.
- Della “guerra” intesa come non comprensione dell’altro.
Dei modi di vedere a seconda dei personaggi, dal prete con il suo “amico immaginario” al giapponese bersagliato perché “con la faccia del nemico”.
E dell’amicizia, della profonda amicizia che ci più essere tra persone apparentemente tanto diverse.
Della famiglia. E altri, ugualmente dignitosi.
C’è sempre un modo diverso di vedere le cose.

“MASAO KUME credeva che niente fosse più potente della volontà.
La volontà di affrontare le proprie paure. E di agire”.
Ne ho tratto un punto focale.
La sofferenza e il libero arbitrio.
La sofferenza e il libero arbitrio come agiscono insieme?
Il film dipinge le emozioni umane e il modo in cui sono “gestite”.
Il piccolo amabile Little Boy con il suo “atto psicomagico” – come lo chiamerebbe Jodorowsky – fa di tutto per portare a casa il suo amato padre (partito per la guerra al posto del fratello), che è anche il suo “socio”.
Quest’ultimo, quando giocavano assieme, gli chiedeva “credi di potercela fare?” Per questo motivo, Little Boy non si perde mai d’animo.
Pur soffrendo, probabilmente più di tutti. Ma la sofferenza non si misura..
Il fratello “stupidotto” – accecato dall’odio razziale senza nemmeno saperne il motivo reale – si umanizza. Come? Col libero arbitrio. A un certo punto decide di pensare con la sua testa, non con quella del volgo.
Nel Kybalion si parlerebbe di trasmutazione. Di cambio di polarità per trasformare una situazione negativa in positiva poiché entrambe le situazioni sono in verità parte dello stesso continuum e occorre solamente cambiarne la polarità.
Tutti soffrono. È la condizione umana, qui contestualizzata dalla guerra al Giappone. E “misurare” la sofferenza in “quote” ha ben poco senso.

Ed è questo ciò che ho appreso:
- Se uno soffre e trasferisce la sua sofferenza agli altri, è uno strxxzo, non è una persona che soffre e che quindi va compatita.
Al che occorre riconoscere che la persona sta sì soffrendo ma sta anche non gestendo e trasferendo e va quindi messa nella condizione di non nuocere. Come nel caso del bullo, il figlio del dottore.
- Oppure la persona che soffre usa la sofferenza come leva di crescita e ne fa beneficiare se e anche gli altri. Proprio come nel caso di Pepper, il nostro “piccolo” protagonista.
Entrambe le cose sono possibili: questo è il senso del libero arbitrio.
La persona che soffre può scegliere come gestire la sua parte di sofferenza.
La scelta spetta a noi.
Sempre.
Ripeto perché sia chiaro. Chi soffre e trasferisce la sua sofferenza agli altri, facendoli soffrire a loro volta, è uno strxxzo e basta, non va compatito perché soffre. Chiunque glielo permetta non è vittima, è complice.
Idem per chi vive nel disagio e trasferisce il suo disagio agli altri: sta facendo male agli altri e a se stesso.
Ma quando noi scegliamo di preservare gli altri dal nostro disagio e AGIAMO per cambiare polo a quella data situazione, beh, è lì che stiamo portando il nostro vero contributo al mondo.
Perché non c’è niente di meglio di chi ha conosciuto l’inferno e ne è risalito per portare la sua esperienza di crescita. Non per far pagare a chi non c’entra nulla il prezzo della sua sofferenza.
“La tua fede non funzionerà se nel tuo cuore esiste anche la minima parte di odio”.
CI VUOLE CORAGGIO PER CREDERE.
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Leonardo Aldegheri
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